lunedì 23 novembre 2015

I remember you

Finalmente ho finito di guardare I remember you. Dico finalmente perché l'avevo iniziato a settembre, ero partita sparandomi le puntate tutte di fila e poi ho rallentato nel finale fino a fermarmi a meno di due episodi dalla fine, perché me la volevo gustare per bene senza interruzioni. Prima che arrivasse il momento giusto ci è voluta una vita, ergo finalmente.
Io ne parlo scrivo ma non ho ancora detto cos'è: I remember you (noto anche come Hello monster) è un k-drama di 16 episodi trasmesso tra giugno e agosto 2015, quindi recentissimo. Considerando che evito di guardare le serie on air perché detesto aspettare l'uscita della puntata settimanale, il più delle volte guardo tutto con molto ritardo, ma a furia di sentir parlare di questo drama mi era venuta una curiosità pazzesca.


Di cosa parla? E' un drama di genere drammatico, anzi un thriller psicologico.
David Lee è un brillante criminologo che lavora negli Stati Uniti. Dopo tanti anni di assenza, torna in Corea per aiutare la polizia a far luce su una serie di morti curiose. Diventa consulente della squadra omicidi in cui lavora la buffa Cha Ji Ahn, che, David non lo sa, ha sempre avuto un interesse particolare per lui, in pratica lo stalkera fin da quando erano bambini XD

Cha Ji Ahn che si nasconde dal capo XD

David però non è tornato solo per buon cuore. La missione che si è prefissato ha le sue radici in un lontano passato di bambino, quando David si chiamava ancora Lee Hyun e viveva con il fratellino Min e il padre, anche lui criminologo. Un giorno, andando a zonzo per la centrale di polizia in cui lavorava il padre, Lee Hyun si era ritrovato per caso in una sala interrogatori incustodita. Il detenuto che si trovava lì era un giovane gentile dal sorriso enigmatico, Lee Joon Young, che aveva preso subito in simpatia il bambino e aveva avuto con lui una breve ma significativa conversazione. Lee Hyun era stato ben presto ritrovato dal padre che, terrorizzato, lo aveva trascinato immediatamente fuori dalla sala e da quel momento in poi aveva iniziato a dubitare della normalità del suo stesso figlio, perché quel giovane sorridente non era un criminale da due soldi, bensì un serial killer la cui mente il criminologo proprio non riusciva a sondare. Il padre di Lee Hyun si fidava così poco del suo bambino (e dei suoi metodi educativi aggiungerei io) che arrivò al punto di rinchiudere il suo stesso figlio nel seminterrato di casa per timore che diventasse un assassino.


Nel frattempo Lee Joon Young aveva messo in atto un'evasione sanguinosa, giungendo ad irrompere in casa del criminologo per ucciderlo davanti agli occhi di Lee Hyun. Il killer fuggì impunito e Min, il fratellino minore, sparì senza lasciare traccia. Quel breve dialogo alla stazione di polizia aveva stravolto la vita di un bambino lasciandolo orfano e pieno di dubbi.
Ora Lee Hyun, alias David Lee, vuole usare il suo ruolo di consulente per avere accesso a tutte le informazioni di cui è in possesso la polizia e ritrovare Lee Joon Young e suo fratello. Ma la strada per la verità è un sentiero tortuoso e buio che si inabissa nel profondo dell'animo umano.

Il sorriso inquietante del serial killer

In questa storia ci sono davvero tanti personaggi e tutti sono collegati a Lee Hyun o all'assassino. E' una partita a scacchi, un continuo gioco mentale tra i due. Non mancano però i momenti comici, offerti principalmente dai membri della squadra omicidi, e quelli romantici (rari ma presenti) tra Lee Hyun e Ji Ahn. Le musiche sono dolci o incanzanti, perfette nei momenti decisivi, e non mancano i colpi di scena (specie negli ultimi episodi). 

Ahimè, il finale lascia a desiderare: SPOILER - di tutte le questioni irrisolte offerte dalla trama, quelle principali non trovano uno sbocco perché Lee Joon Young riesce a fuggire ed è nuovamente latitante, Lee Hyun torna a lavorare con la polizia per dargli la caccia (e fin qui si ripropone la situazione iniziale del drama), Min, davanti alla scelta se cambiare identità e vivere nascondendosi o se costituirsi ma mantenere il proprio nome e restare vicino al fratello, sembra scegliere la seconda opzione. Non tutti i poliziotti corrotti coinvolti nell'evasione di Joon Young e nell'insabbiamento delle prove vengono puniti secondo giustizia, né viene riabilitato il nome di coloro che erano stati infangati da queste mosse politiche. Inoltre la storia tra Lee Hyun e Ji Ahn è appena agli inizi, abbozzata e non riconosciuta dagli altri personaggi (sembra una storia segreta). Insomma, in sedici episodi si è appena scalfita la punta dell'iceberg e, volendo, ci potrebbe perfino stare una seconda stagione (anche se qui di carne al fuoco ce n'era davvero molta e le scene assurde e irrealistiche non mancavano, specialmente quando il medico legale e l'avvocato vengono "smascherati" dagli altri pg).


A parte il finale insoddisfacente, la serie mi è piaciuta e non poco. Lungo tutta la serie, gli eventi del passato vengono introdotti in forma di flashback, rivelando l'antefatto un po' qui e un po' là. Molti episodi tengono col fiato sospeso e, se si supera la selva di nomi e personaggi, è interessante seguire l'evoluzione delle indagini. 
Prima di iniziarlo avevo letto peste e corna su Cha Ji Ahn, sia sul personaggio che sull'attrice che la interpreta (Jang Na Ra), ma a me invece è stata simpatica (anche se all'inizio sembra un po' scemotta XD). Invece ho rivalutato Seo In Gook (Lee Hyun/David): l'avevo già visto in Master's Sun, dove non mi era piaciuto per niente, ma qui è scattato qualcosa che mi ha fatto smettere di guardarlo in cagnesco. Mi sono piaciuti una cifra gli attori che interpretano Lee Joon Young da giovane (cioè D.O. degli EXO) e Min adulto (Park Bo Geum). 


Una bella visione :D

domenica 25 ottobre 2015

Un periodo frenetico @_@

La costanza non è una delle mie virtù. Me ne rammarico, perché mi tornerebbe davvero utile. Diciamo che faccio del mio meglio per mantenere un minimo di regolarità. Parlo di Bluebook: quando lo aprii, lo feci con l'intento di scrivere di più, di esprimermi di più, di non dimenticarmi tutto quello che sperimento e che mi passa per la testa, di avere una traccia di tutto questo fermento mentale.
E poi mi accorgo che sono quasi due mesi che non metto mano al blog. Un mucchio di idee, un sacco di bozze da sistemare prima della pubblicazione, ricerche da fare, immagini da scannerizzare... Ma il pc fisso a cui è collegato lo scanner ha deciso che vuole andare in pensione e io ho iniziato un nuovo lavoro che mi porta via davvero TANTO tempo. 
Mi sembra di non riuscire a fare più niente. Non ho il tempo per godermi un film per intero, per dedicarmi almeno un'ora per volta alla lettura, per immergermi in un videogioco, per ascoltarmi una playlist come si deve, per sperlazzare, come lo chiamo io, cioè per lavorare con le perline per realizzare gioielli. Per cimentarmi nelle miniature e nell'uso delle paste polimeriche, come vorrei fare da mesi. Figuriamoci per scrivere sul blog, dove un post porta via molte ore di lavorazione. Durante la settimana riesco a malapena a fare il necessario (commissioni urgenti, visita ai parenti, una volta alla settimana do lezioni di inglese etc) e il weekend è tutto speso nel riprendermi dalla stanchezza generale e contemporaneamente nel non far morire la mia vita sociale quel tanto che basta per continuare ad averne una. 
Devo trovare un nuovo ritmo, trovare il modo di conciliare tutto quello che mi piace fare e di cui si nutre Bluebook con la mia nuova vita. Ci sto ancora lavorando, ma intanto ho trovato qualche minuto per scrivere :)

sabato 5 settembre 2015

Presagio triste

Se escludiamo gli anime che guardavo da bambina (quando ancora non ero in grado di distinguere l'animazione giapponese dagli altri cartoni animati), il mio rapporto col Giappone è iniziato con i manga quando avevo undici o dodici anni. Durante le scuole superiori ho iniziato a interessarmi anche di letteratura del Sol Levante ed è stato proprio in quel periodo che ho scoperto Banana Yoshimoto.
Ricordo che la mia professoressa di italiano propose un esperimento: tutti dovevamo portare a scuola un libro letto e poi prestarlo a un compagno, in modo da scambiarci libri e impressioni ed esporre i nostri commenti alla classe. Una mia compagna portò Sly e, anche se alla fine non lo scambiò con me, mi rimase la curiosità. Ridicolo pensare che tutt'ora non l'ho letto e che con la Yoshimoto ho fatto tutto un altro percorso. Sono partita leggendo Kitchen, e forse quella volta nemmeno sapevo che era la sua prima opera. A parte la sorpresa nello scoprire che era molto più breve del previsto (Kitchen è solo il primo di due romanzi brevi contenuti nel libro), mi piacque moltissimo e decisi di approfondire la scrittura di Banana.
Entro la fine della scuola avevo letto anche N.P., Amrita e alcuni racconti di Lucertola e Sonno profondo. E poi basta. Non ho letto più niente di suo per anni, pur avendo qualche titolo a casa che aspettava solo di essere rispolverato. Non lo so, mi era passata la voglia. Quando pensavo di prendere in mano un suo libro mi dicevo: "Naaaaaaaaa! Sarà per la prossima volta".
Quest'estate, reduce da un periodo lunghissimo di blocco del lettore, spinta dalla disperazione avevo pensato di buttarmi per un po' su libri brevi e leggeri nella speranza di riprendere il ritmo. E così ho preso in mano Presagio triste. Lo scontrino conservato tra le pagine mi è testimone: l'avevo acquistato il 4 giugno del 2006 e il poverino ha dovuto aspettare nove lunghi anni che arrivasse il suo momento. Alla fine anche lui ce l'ha fatta ed ora eccomi qua a parlarne scriverne.


Yayoi vive in una villetta con i genitori e un fratello minore che sta per diplomarsi. Sulla sua quotidianità apparentemente perfetta ("La mia era una di quelle famiglie felici e sorridenti della classe media come in un film di Spielberg" p.22) grava però un'ombra sottile: Yayoi non ricorda la sua infanzia e, quando ci prova, un senso di struggente nostalgia la assale. Per tanti anni è riuscita a ignorare quella perdita, ma sembra che ora, piano piano, stia diventando insostenibile.
E non è l'unica sua stranezza: Yayoi sa le cose. O meglio, le sapeva. Sua madre le racconta che da bambina indovinava sempre chi stava telefonando non appena squillava il telefono e aveva questa particolare sensibilità che le permetteva di vedere o sapere cose che gli altri non percepivano, dote però che è andata normalizzandosi crescendo.
Yayoi è anche l'unica della sua famiglia a sentire un legame speciale con la giovane zia Yukino, eccentrica insegnante di musica in un liceo. In passato, quando doveva affrontare un problema, Yayoi mollava tutto e andava dalla zia, che vive da sola in una grande casa trascurata, con le erbacce che invadono il giardino e la polvere che avanza in tutte le stanze. Yukino mangia quando ha fame, guarda la tv se vuole svagarsi, salta la scuola se ne ha voglia e dorme per la maggior parte del tempo, ma quella vita riservata e solitaria ben si adatta ai momenti delicati in cui Yayoi sente il bisogno di allontanarsi dalla sua famiglia per schiarirsi le idee. Ed è durante uno dei suoi soggiorni presso la desolata casa della zia che Yukino svanisce nel nulla senza lasciar detto niente a nessuno. 
Yayoi parte, assieme al fratello Tetsuo, alla ricerca della zia per una gita che è più un viaggio alla riscoperta di sé e del passato e all'esplorazione dei segreti di Yukino e del legame che lei stessa ha con suo fratello.


Dopo tanti anni di lontananza dalle opere di Banana Yoshimoto e dopo averne spesso letto peste e corna da parte di molti lettori, mi ero quasi convinta che il mio bel ricordo dei suoi libri letti dipendesse dal fatto che da adolescente ero una lettrice meno smaliziata di adesso, che quella volta mi fossi fatta abbindolare dall'inesperienza e che a leggerla ora probabilmente non ci avrei trovato le stesse cose che mi erano già piaciute una volta. Quanto mi sbagliavo. Poche pagine dopo aver iniziato Presagio triste, di botto mi sono ricordata i motivi per cui avevo amato Amrita e Kitchen (N.P. lo ricordo di meno): la semplicità della scrittura, la familiarità delle atmosfere, la pacatezza dei personaggi. I suoi libri emanano pace e serenità, proprio quello che mi serviva dopo un periodo di letture burrascose. Mi è sembrato davvero di prendere una boccata di aria fresca e risanante. Un vero toccasana per menti travagliate.

I suoi classici temi sono tutti qui ancora una volta. 
Il soprannaturale: quasi sfiorato tanto è trattato in maniera vaga e indefinita; di solito c'è almeno un personaggio caratterizzato da una spiccata sensibilità che gli permette una visione del mondo un tantino differente da quella di tutti gli altri, questo pg sente un legame con le altre persone o con l'aldilà ma non ha pretese di inquadramento o etichettatura, è qualcosa di naturale come respirare, non è strano né viene percepito come anormale, è parte integrante del ciclo vitale e del mistero della natura; inoltre il soprannaturale è sempre abbozzato e non è mai invasivo, non monopolizza la scena o la trama fino a spingere il libro nei generi dell'horror o del fantasy, aleggia sulle vicende facendosi sentire di quando in quando.
La casa: la quotidianità e la ripetitività dei gesti, il conforto di ciò che è noto e l'universale riconoscerci come esseri umani che vivono al di fuori di eventi eccezionali per la maggior parte della vita. La casa è intesa come il focolare domestico, plasmata sui suoi abitanti ma uguale per tutti nelle nostre necessità elementari, è il luogo di conciliazione con se stessi, di ritiro mentale, di tranquillità, il luogo dove si può essere quello che si è senza finzioni. 
Ma soprattutto la famiglia: famiglia intesa come legame coltivato tra le persone più che come fattore biologico. Banana Yoshimoto sceglie sempre di esplorare situazioni fuori dall'idea di famiglia che fa parte dell'immaginario comune, cioè quella di padre, madre, figli, nonni, zii, nipoti tutti legati dal sangue, dal dovere e dall'obbedienza. Banana fa sì che i suoi personaggi stiano insieme per motivi diversi dallo spoglio vincolo biologico, costruiscono ogni volta rapporti che si nutrono di affinità, di condivisione, di accettazione e sceglie relazioni che difficilmente si inquadrano nella società o nell'etica, spesso i suoi personaggi fanno parte di famiglie allargate. Non è intesa come una sfida o una critica all'ordine esistente, ma più come il prendere in considerazione ambiti affettivi che ancora non hanno definizione, è l'esplorazione delle sfaccettature dei legami tra le persone, nessuna relazione è uguale a un'altra perché non ci saranno mai due persone identiche.

Mi sono molto piaciuti i personaggi principali, la misteriosa e pigra Yukino in primis, ma anche il solare Tetsuo e l'energico e rassicurante Masahiko (non vi spiego chi è altrimenti spoilero). E ho amato la delicatezza con cui l'autrice tratta temi drammatici e problematici (la stessa con cui dipinge con vaghezza il soprannaturale e con tatto i legami tra personaggi). 
Quindi niente di nuovo rispetto ai romanzi che avevo letto in precedenza (in particolare ci ho trovato molto di Amrita, o forse dovrei dire che ho trovato molto di Presagio triste in Amrita), forse anche perché sono tutti stati scritti in un arco di tempo non troppo ampio (Kitchen e Presagio triste nel 1988, Sonno profondo nel 1989, N.P. nel 1990, Lucertola nel 1993 e Amrita nel 1994), ma era proprio quello che volevo e comunque non sono una fanatica dell'originalità a tutti i costi. 
Insomma, l'ho davvero apprezzato e ha decisamente migliorato la mia estate, temevo di andare incontro a una delusione e invece ho ritrovato una vecchia amica :)

giovedì 23 luglio 2015

Books Everywhere! Part IX

Rieccomi con gli acquisti. L'ultimo Books everywhere! era di qualche mese fa, quindi ho di nuovo terreno da recuperare XD






All'inizio ero decisa a scansarlo, ma poi ha cominciato a solleticarmi l'idea dell'ambientazione romana, abbastanza insolita tra i romanzi rosa, dove dominano il Medioevo e il periodo Regency. Poi l'ho trovato usato e insomma ho colto l'occasione.







L'aveva citato la mia professoressa di italiano delle superiori. Da allora ho continuato a sentirne parlare e ora sono dell'idea che prima o poi in un Franzen mi sarei imbattuta.




Fantasy goticheggiante praticamente sconosciuto in Italia. Scoperto quando mi sono imbattuta nella miniserie BBC del 2000 con Jonathan Rhys Meyers come protagonista tratta dai primi due romanzi della serie di Gormenghast (che in totale sono tre).
Per anni ho aspettato di comprarlo fino a quando il destino mi ha assistito e Adelphi ha deciso finalmente di ristamparlo e ad un prezzo decisamente inferiore. Thank you!







Dopo aver letto Lupo mannaro e Almost Blue, continuo con le indagini dell'ispettrice Grazia Negro.







Perché Zweig mi ispira e lo voglio proprio provare. Poi non c'entrerà una mazza, ma un libro che parla di scacchi mi ricorda La variante di Luneburg di Maurensig. E infine me lo tiravano dietro a 1.90€.







Non mi dispiacciono i thriller e ho già letto un libercolo di Simoni intitolato I sotterranei della cattedrale, che ho trovato piuttosto carino.





Secondo capitolo dei Chicago Stars. Il primo non era malvagio, ma questo volume, che ho già letto, mi ha conquistata. Bobby Tom era già un personaggio intrigante, sebbene secondario, nel primo libro, ma qui è il protagonista e non ho potuto fare a meno di trovarlo ancora più simpatico.
Ho già letto anche il terzo volume che ho commentato qui.







Ampiamente elogiato nel gruppo di lettori di cui faccio parte su Facebook. Giallo-thriller di autore italiano e ristampato nella collana Super TEA (alla portata economica di ogni lettore). Quasi sicuramente non mi dispiacerà.







Presto nuovi aggiornamenti al listone degli acquisti :D

mercoledì 15 luglio 2015

E liberaci dal padre

E liberaci dal padre (titolo originale: A Great Deliverance) è il romanzo d'esordio, pubblicato nel 1988, di Elizabeth George, nonché la prima delle numerose indagini condotte dall'ispettore Lynley e il sergente Havers. La serie è composta ad oggi da sedici romanzi, a cui vanno aggiunti un prequel sempre con Lynley e un capitolo in cui devono risolvere il giallo dei personaggi secondari della serie madre.

In un villaggio della pittoresca campagna inglese un uomo viene ritrovato decapitato nel suo fienile. Accanto al corpo siede la figlia con l'abito della domenica sporco di sangue. Le uniche parole che pronuncia sono: "Sono stata io. Non me ne pento" e poi settimane di silenzio. Il prete del paese vola a Londra a chiedere aiuto a Scotland Yard e il caso viene affidato a una coppia di investigatori che descrivere come male assortita sarebbe riduttivo.
Lui, Thomas Lynley, uomo colto, affascinante, altolocato e ricco che, per qualche misterioso motivo, ha deciso di impiegare il suo tempo trattando con testimoni riottosi e marciume umano. Lei, Barbara Havers, bisbetica non ancora domata, rigida, astiosa, brutta e totalmente priva di senso estetico o di educazione superiore, è riuscita a farsi sbattere fuori dalla squadra investigativa dopo aver bruciato ben tre partner di indagini con la sua stizza per tornarsene con la coda tra le gambe alle volanti e alle pattuglie.
I due devono tentare di instaurare un qualche rapporto di fiducia o rispetto mentre si schiariscono le idee tra i vari e un po' loschi personaggi che abitano il paesino inglese, dove ovviamente tutti conoscono tutti e i pettegolezzi volano come palline in un campo da tennis.
Contemporaneamente, Deborah e St. James, amici di vecchia data di Lynley, si trovano per caso in una locanda nello stesso villaggio per trascorrere la loro breve luna di miele. Tra un bicchiere di brandy e il chiacchiericcio incessante di un invadente ospite americano, la padrona del posto racconta loro una vecchia leggenda locale per cui talvolta, di notte, si sentirebbe il pianto di un neonato provenire dalle rovine della vicina abbazia...

Un giallo che si legge bene. Non ho avuto fretta e me lo sono assaporato pian piano gustandomi l'inizio lento e i molti personaggi. Personaggi ben delineati, anche se ammetto di aver odiato Havers. L'infelicità della sua vita l'ha resa invidiosa nei confronti degli altri, specialmente verso Lynley, che ha l'unica colpa di vivere una vita apparentemente perfetta da titolato dell'alta società. Ovviamente anche lui ha le sue grane, belle pesanti a dire il vero, ma Barbara vede soltanto quel che vuol vedere. Per tutto il libro si crea un'idea degli altri senza alcuna prova e poi segue i suoi pregiudizi quasi fossero il vangelo, di solito andando incontro a disastri di epiche proporzioni. Che idiota. Io l'ho trovata assurdamente irritante, anche se capisco che la complessità del suo carattere possa essere interessante. Le ho nettamente preferito Lynley senza indugio, specialmente per i suoi sforzi di sembrare sempre sciolto e a suo agio anche in situazioni spinose.

E' un giallo quindi spendo due parole anche sull'andamento delle indagini. Gli indizi sono tanti e tutti da interpretare. In questo Havers sa essere una brava detective, forse migliore di Lynley per certe trovate brillanti a cui lui non aveva minimamente pensato. D'altra parte però Thomas ogni tanto tira fuori dal cilindro deduzioni senza spiegazione, cioè capisce certe relazioni tra personaggi senza che al lettore fosse mai stato dato uno straccio di indizio in quel senso, o almeno io non ci sarei proprio arrivata. E la cosa mi stupisce, perché sono una che osserva i dettagli e quasi mi dispiace affermare che a metà libro avevo già capito la parte fondamentale del mistero (che NON è l'identità dell'assassino). 
L'altra parte del mistero è stata per me nebulosa fin quasi al finale, soprattutto perché la cara Elizabeth butta qui e là alcune scene particolarmente fuorvianti, almeno una delle quali resta comunque senza spiegazione alla fine del libro (parlo dell'interludio tra Ezra e Danny, in cui lei piange e lui si incavola). Tutte le altre hanno un rapido e doveroso chiarimento tra le pagine finali.

La Chiesa, sia cattolica che anglicana (non parlo di religione, parlo di Chiesa intesa come istituzione e come insieme dei suoi rappresentanti), in questo romanzo ci fa una ben magra figura e i personaggi che la incarnano finiscono, ognuno per motivi diversi, per venire schiacciati dai propri lati negativi.

Oltre all'andamento pigro e lento che io ho molto apprezzato, il vero punto di forza del romanzo è la caratterizzazione dei personaggi. Il cambio di linguaggio a seconda del punto di vista e degli interlocutori nei dialoghi è riuscitissimo e dice molto anche dei personaggi a cui sono dedicate poche descrizioni: sono fantasticamente dipinti Hank, l'ospite americano della locanda, logorroico e kitsch, Olivia Odell, fragile e insicura madre sull'orlo di una crisi di nervi, miss Burton Thomas, la pragmatica e ciarliera padrona della locanda, Richard Gibson, il malizioso cugino della presunta assassina, Bridie Odell, la vivace figlia di Olivia che gira sempre con la sua anatra domestica.

Non male anche le descrizioni del villaggio e della campagna inglese:
C'erano elementi contrastanti dappertutto. Nelle aree coltivate la vita germogliava da ogni fessura e da ogni cespuglio, una fitta vegetazione che in un'altra stagione avrebbe prodotto la bellezza variegata dei trifogli, della licnide, della veccia e della digitale. Era una terra in cui le macchine venivano fatte aspettare quando due cani conducevano un gregge di grasse pecore al di fuori dei pascoli, giù per la collina, lungo la strada per una passeggiata di qualche miglio fino al centro del villaggio, guidati soltanto dal fischio del pastore che veniva dietro, e che affidava il proprio destino e quello dei suoi animali all'abilità dei cani. E poi di colpo le piante, i villaggi, le magnifiche querce, gli olmi e i castagni sparivano nel nulla lasciando il posto alla selvaggia e primitiva bellezza delle brughiere. (p. 107)
Un veduta della campagna dello Yorkshire con tanto
di villaggio, chiesa e pecorelle al pascolo
:)

Tirando le somme posso dire che non è stupendo, ma è decisamente una lettura piacevole e penso proprio che andrò avanti con il ciclo, se non altro per vedere l'evoluzione dei tesi rapporti tra Lynley, Havers e un'altra manciata di personaggi fissi.

lunedì 29 giugno 2015

L'albero di Halloween

L'albero di Halloween è un romanzo breve (anzi brevissimo: 125 pagine) pubblicato da Ray Bradbury nel 1972. 
L'idea iniziale era quella di una sceneggiatura per un film d'animazione, che è poi stato realizzato nel 1993. L'edizione originale americana era accompagnata da una serie di illustrazioni di Joseph Mugnaini; visto che la mia Mondadori non ne ha, sono andata a cercarmele ed essendo particolari ne ho inserita qualcuna qui e là nella recensione :)


E' il tardo pomeriggio dell'ultimo giorno di ottobre quando una manciata di ragazzini esce di casa e si incontra per la strada. Aspettano per oltre trecento giorni la serata più divertente dell'anno, quella per cui è lecito scavare tra le cianfrusaglie in soffitta e scoprire qualche oggetto impolverato o qualche costume tarlato da indossare. Il piano è quello di percorrere la città bussando porta dopo porta, pestando portico dopo portico, passando steccato dopo steccato per poi minacciare i noiosi adulti di tremende conseguenze se in cambio non sganciano il malloppo dolciario. 
Tutto sembra come al solito, solo che manca Pipkin! I ragazzi si fiondano a casa sua a chiamarlo, ma Pip è triste e si stringe la pancia, anche se si sforza di sembrare allegro per non impensierire i suoi amici. Li spedisce in missione nella cava ai margini della città, ad esplorare la vecchia villa diroccata per dimostrare il loro coraggio proprio nel giorno che fa più paura. Promette di raggiungerli però, più tardi dice, voi andate avanti.
E i ragazzi corrono entusiasti verso la casa abbandonata, guidati da Tom, vestito da scheletro, che li porta fino al grottesco batacchio e bussa all'ennesima porta della serata. Ma la villa non è disabitata: il suo proprietario, Mr. Moundshroud (cioè sudario), è pallido e ossuto. Nel giardino sul retro della villa troneggia un albero enorme, ai cui rami sono appese centinaia di zucche intagliate che illuminano la scena alla luce delle candele. 
Ma ecco comparire Pip in fondo alla cava. Non può correre, fa fatica e parla con un'esile vocina. Mentre arranca per raggiungere la casa, un'ombra lo porta via senza un fiato e Mr. Moundshroud propone ai ragazzi urlanti e preoccupati di volare a salvarlo. 
Inizia così un viaggio grottesco e surreale lungo i secoli alla ricerca delle origini della festa di Halloween, per poter capire come la paura della morte e il ricordo dei defunti sono cambiati nel tempo, ma soprattutto all'inseguimento di Pip, rapito da forze misteriose, sempre sfuggente e bisognoso di una mano.


E' il primo Bradbury che leggo. Ho Fahrenheit 451 in lista d'attesa, ma è un periodo in cui mi trascino dietro letture iniziate secoli fa (e per le quali non mi sono ancora arresa) e avevo bisogno di qualcosa di breve per tentare di uscire dal ristagno, così ho preso in mano questo libercolo che aspettava da tempo di essere letto.
E' carino. E' una lettura veloce e divertente e ben si adatta ai suoi giovani, vivaci e curiosi protagonisti, però non mi ha entusiasmato. 

Il linguaggio è espressivo e ricco di metafore. Talvolta ne vengono fuori periodi davvero ingegnosi e freschi, ad esempio:
Intanto le assi di legno del portico gemevano e si curvavano sotto il loro peso, minacciando a ogni movimento di cedere e di precipitarli in chissà quale abisso sottostante infestato di scarafaggi. Le assi, intonate come le corde di un pianoforte, cantavano i loro misteriosi do-re-mi sotto le scarpe grosse dei ragazzi. (p.20)
oppure
I ragazzi caddero. Coi piedi colpirono il suolo come una gragnuola di castagne. (p.60)
o ancora
Scoprirono di essere in mezzo a un cimitero abbandonato, senza luci. Solo lapidi, che sembravano grandi torte nuziali glassate dalla vecchia luna. (p.109)
Altre volte la scelta dei vocaboli rende la descrizione degli eventi astratta e difficile da cogliere, ho dovuto rileggere le frasi di quando in quando perché non avevo ben capito cosa stava succedendo.
Inoltre la traduzione di Annalisa Mancioli (Fabbri Editori del 1994) mi è parsa un tantino datata e qualche volta discutibile: l'originale gargoyle è stato tradotto con grottesca, mentre Thanksgiving (la festa del Ringraziamento) è rimasto in inglese e la parola polvere ricorre fin troppo spesso in poco più di centoventi pagine; un nota chiarisce che la Ballata di Natale (Christmas Carol) è una novella di Charles Dickens, un'altra informa il lettore che Quasimodo è un personaggio di Victor Hugo, un'altra ancora spiega che le pinatas corrispondono in italiano al gioco della "pentolaccia" (p.108). Ma va'! 
Ogni tanto Bradbury inserisce delle canzoni o delle poesie che in originale sono quasi sicuramente in rima e purtroppo la musicalità del testo va a farsi benedire con la traduzione, ma per questo c'è davvero poco da fare :(


L'albero di Halloween del titolo ha poco a che fare col resto della narrazione (e non è un titolo inventato dall'editore italiano perché in inglese è proprio The Halloween Tree), o meglio, compare all'inizio e alla fine ma è solo un simbolo di scarsa importanza ai fini della storia, che offre più che altro riflessioni sulla morte, anzi, sul modo in cui la morte è stata diversamente percepita dall'uomo nel corso del tempo.


Pipkin fa un'entrata in scena stupenda. Viene introdotto con una bellissima descrizione:
Pipkin, caro Pipkin, il migliore, il più simpatico dei ragazzi.Come facesse a correre così veloce nessuno lo ha mai saputo. Le sue scarpe da tennis erano vecchie, verdi delle foreste che aveva attraversato, brune dei lunghi percorsi fra le messi di settembre, incatramate sui moli e sulle spiagge dove attraccavano le chiatte di carbone, gialle delle intemperanze dei cani, piene di schegge di steccati. Gli abiti erano quelli dello spaventapasseri, su cui i cani di Pipkin dormivano o giocavano, consumati alle maniche e strappati sul sedere. I capelli? Un porcospino dalle setole biondo-scure, puntate come daghe in tutte le direzioni. Le orecchie? Pura peluria di pesca. Le mani? Impastate di polvere, del buon odore dei terrier, di caramelle di menta e pesche rubate in lontani frutteti. Pipkin. Un connubio di odori, sapori, velocità, di tutti i ragazzi che mai corsero, caddero per rialzarsi e corsero ancora. (p.12)
All'introduzione di Pipkin è dedicato un intero capitolo (comunque breve, tre pagine scarse) e nessuno degli altri ragazzini del gruppo gode di una descrizione tanto minuziosa, anzi, quasi non godono di alcuna descrizione, a parte i riferimenti ai costumi di Halloween che indossano.
E' l'inizio della storia e il lettore si aspetta che, dopo tanta abbondanza descrittiva, Pipkin sarà il protagonista della storia. Invece no. Pipkin compare per dire ai suoi amici di andare avanti nell'esplorazione, poi lo si intravede da lontano nella scena del rapimento e poi di lui si sa poco e niente. Ricompare come un lampo da lontano di quando in quando durante lo strano viaggio che i suoi amici fanno alla sua ricerca e sempre in altre vesti, una volta è un minuscolo cane, una volta è una mummia, una volta il suo nome si legge su un teschio. 
Anche se il giorno in cui Joe Pipkin era nato tutte le bottiglie di Coca-Cola e di aranciata avevano spumeggiato di gioia (p.11), in pratica lui è sempre assente e al suo posto il leader della compagnia di ragazzini diventa Tom Skelton, quello che dimostra un po' di coraggio e si fa avanti per primo quando la fifa dei suoi amici è evidente. Caro Pip, avresti potuto avere una storia tutta tua, ma il tuo creatore ha decretato altrimenti.


I ragazzini sono tanti. Se si esclude Pipkin, che non porta alcun travestimento, i bambini sono ben otto e hanno circa dodici anni. Ognuno indossa un costume diverso: Tom è vestito da scheletro, Ralph da mummia, J.J. da cavernicolo, Wally da grottesca (alias gargoyle), Henry-Hank da strega, Fred da accattone e Georg da fantasma. 
L'abbondanza di bambini e di costumi è giustificata dal viaggio surreale: Mr. Moundshroud li catapulta in epoche e ambienti diversi che spiegano il legame tra i loro costumi, il culto dei morti e la festa di Halloween. E' un'idea carina, solo che, essendo il viaggio un'esperienza di gruppo e facendo i bambini tutti le stesse cose, compaiono spesso elenchi e ripetizioni, una sorta di etcetera virtuale continuato, che si sarebbe potuto evitare solo se i ragazzini avessero sviluppato un'individualità che gli permettesse di essere distinti gli uni dagli altri in maniera chiara anche per il lettore. In molti passaggi regna un generico plurale: in situazioni misteriose e spaventose come quelle legate alla notte di Halloween, il gregge segue il primo che si fa avanti, perciò quello che fa il primo fanno tutti, quello che dice il primo seguono tutti. Solo Tom risalta lievemente perché è il principale interlocutore di Moundshroud, nonché il ragazzino meno fifone.


Nel complesso il libro è carino anche se mi è parso superficiale e un po' confusionario. La carne al fuoco c'era, ma si poteva arrostirla meglio.
Vi lascio con un passaggio divertente dritto dritto da pagina 76:
Grandi fuochi illuminavano l'Europa. A ogni crocicchio, a ogni fienile, ombre nere evocavano gatti dalle fiamme. I calderoni bollivano. Vecchie megere scagliavano maledizioni. I cani frugavano fra le braci. "Streghe, streghe dappertutto" disse Tom, annichilito "non credevo che ce ne fossero tante.""A frotte e a schiere, Tom. L'Europa ne era invasa. Streghe nelle cantine, nei solai, sotto il letto, dappertutto.""Caspita" si pavoneggiò Henry-Hank travestito da Strega. "Streghe autentiche! Potevano parlare ai morti?""No" disse Moundshroud."Evocare il diavolo?""No.""Chiudere il diavolo fra gli stipiti delle porte e liberarlo a mezzanotte?""No.""Volare a cavallo di una scopa?""No.""Far starnutire le persone?""Spiacente.""Uccidere le persone conficcando spilli in una bambola?""No.""Accidenti! Ma allora cosa potevano fare?""Niente.""Niente?" gridarono offesi i ragazzi."Oh, credevano di poterlo fare!"

lunedì 8 giugno 2015

Un po' per volta: Dracula - Capitolo 2

Avevamo lasciato Jonathan quando era appena giunto nel cortile di un edificio nel bel mezzo della notte. Chissà chi sarà mai il padrone di casa? XD
Dal diario di Jonathan Harker (dal 5 all'8 maggio):
L'edificio è un castello e apre il grosso portone un uomo alto e vecchio. E qui c'è la prima vera entrata in scena del conte:
Within, stood a tall old man, clean shaven save for a long white moustache, and clad in black from head to foot, without a single speck of colour about him anywhere. He held in his hand an antique silver lamp, in which the flame burned without chimney or globe of any kind, throwing long quivering shadows as it flickered in the draught of the open door. The old man motioned me with his right hand with a courtly gesture, saying in excellent English, but with a strange intonation:- etc. (p. 18)
E, poche pagine dopo, la descrizione si fa dettagliata:
His face was a strong -a very strong- aquiline, with high bridge of the thin nose and peculiarly arched nostrils; with lofty domed forehead, and hair growing scantily round the temples but profusely elsewhere. His eyebrows where very massive, almost meeting over the nose, and with bushy hair that seemed to curl in its own profusion. The mouth, so far as I could see it under the heavy moustache, was fixed and rather cruel-looking, with peculiarly sharp white teeth; these protruded over the lips, whose remarkable ruddiness showed astonishing vitality in a man of his years. For the rest, his ears were pale and at the tops extremely pointed; the chin was broad and strong, and the cheeks firm though thin. The general effect was one of extraordinary pallor.Hitherto I had noticed the backs of his hands as they lay on his knees in the firelight, and they had seemed rather white and fine; but seeing them now close to me, I could not but notice that they were rather coarse-broad, with squat fingers. Strange to say, there were hairs in the centre of the palm. The nails were long and fine, and cut to a sharp point. (p. 21)
Ricapitolando: un uomo alto, vecchio, pallidissimo e vestito interamente di nero. Con capelli folti anche se stempiato, fronte ampia e sporgente, un grosso paio di baffi bianchi, profilo aquilino con un naso sottile e larghe narici. Con sopracciglia cespugliose che quasi si toccano sopra la radice del naso, una bocca decisa seminascosta dai baffi in una posa quasi crudele, con denti bianchi e aguzzi che sporgono sulle labbra rosse. Con orecchie pallide e appuntite, mento ampio e forte e zigomi sottili ma fermi. Mani anch'esse pallide, ma ampie, ruvide e forti, con dita tozze che terminano in unghie affilate e infine, ciliegina sulla torta, tanti bei peli sui palmi (disgustoso...). 
A questo punto lo strano accento con cui pronuncia l'inglese non è nemmeno la sua caratteristica più peculiare...
Insomma, un intero capitolo di attesa ma poi i  lettori vengono ripagati con una descrizione dettagliatissima del personaggio che dà il titolo al romanzo. Manca solo il numero di scarpe e poi si sa proprio tutto! Io ho trovato interessante il fatto che non ci sia alcun riferimento agli occhi, notoriamente lo specchio dell'anima e riflesso della verità.

A questo punto è doverosa una rapida carrellata di foto per dare un'occhiata ai vari volti che ha assunto l'ormai celebre conte nel corso degli anni. 



Per primo abbiamo Max Schreck nei panni del conte Orlok (alias Dracula) in Nosferatu il vampiro del 1922.
Pallore, abiti neri, denti aguzzi, unghie affilate, orecchie a punta ci sono tutti.
Bela Lugosi nel primo film Universal dedicato a Dracula (1931). Ormai una figura classica entrata nell'immaginario collettivo (i capelli brillantinati, il panciotto bianco e il colletto rialzato).
Qui il conte ha l'aria di un uomo normale, seppure eccentrico. Giacca nera a parte, questo Dracula si discosta parecchio da quello del buon vecchio Bram.

Christopher Lee ha interpretato Dracula in ben otto dei nove film Hammer dedicati al conte, in un arco di tempo che va dal 1953 al 1973 (vent'anni!), oltre a un altro paio di film in produzioni successive.
Quando non snuda le zanne ha l'aria di un uomo distinto, decisamente più orientato verso il Dracula di Lugosi che quello di Schreck.



Klaus Kinski in Nosferatu, principe della notte del 1979. Non serve sottolineare che la pellicola è un remake del film del 1922 e che questo vampiro è quasi identico a quello di Schreck.


Il conte di Gary Oldman nel Bram Stoker's Dracula di Francis Ford Coppola (1992).
E' vecchio, pallidissimo, capellone anche se stempiato e con una fronte bella ampia. Le unghie sono affilate e, anche se da questa foto non si vede, ricordo benissimo che nel film si vedono chiaramente i palmi pelosi delle mani (mi sa che è l'unico film in cui ci sono). 
Abbastanza fedele anche se non perfetto.


Gerard Butler in Dracula's Legacy (2000) non è decisamente il conte che fa per noi anche perché il film è una trasposizione in chiave moderna. Ci tenevo lo stesso a metterlo per segnalare tutti i principali adattamenti.



Il Dracula di Marc Warren (2006) ha poco del vecchio di Stoker. E' anche vero che però non riguardo questo film per la tv da diversi anni e magari all'inizio compare in forma diversa. Appunto: rivedere.



Il conte nell'ultima fatica di Dario Argento (Dracula 3D del 2012) è interpretato da Thomas Kretschmann, attore tedesco che adoro. 
Devo ancora guardarlo, ma intanto l'abito nero c'è.


Anche questo c'entra poco visto che Dracula Untold (2014) è un prequel del romanzo ambientato nel XV secolo. Quindi Luke Evans interpreterebbe il conte da giovane.


Infine Jonathan Rhys Meyers nel telefilm del 2014. Qui il conte non compare mai vecchio e incontra Jonathan direttamente a Londra. 
Troppo giovane per la nostra descrizione, ma finalmente è un Dracula con i baffi. Certo non baffoni bianchi e di sicuro non ha l'aria grottesca e sinistra che ha nel libro, ma meglio di niente.






Ecco qua i principali conti della cinematografia a confronto con il personaggio di Stoker: certo il caro Bram infila così tanti dettagli che farlo davvero fedele sembra una bella impresa. Penso che aspetterò che compaiano finalmente i baffi bianchi e le sopracciglia cespugliose.


Tornando a noi, Johnny entra nel castello, un edificio vecchio e sfarzoso: l'argenteria, i mobili, le decorazioni sono evidentemente lussuosi e antichi ma ottimamente conservati. Jonathan viene condotto nelle sue stanze, dove trova una cena già pronta; il conte si siede vicino al camino mentre lui cena (il conte dice di aver già mangiato). Jonathan va a letto dubbioso.
Il giorno seguente dorme fino a pomeriggio inoltrato e al risveglio trova un biglietto del conte che dice che sarà assente per affari tutto il giorno (ma va' là!). Esplorando i suoi appartamenti, Jonathan trova una porta che dalla sua stanza conduce a una biblioteca piena di volumi inglesi, un'altra porta è chiusa a chiave. Dopo il suo ritorno, il conte parla del suo vivo interesse per l'Inghilterra e per i costumi inglesi (chiede a Jonathan di correggere la sua pronuncia).
Segue una descrizione minuziosa della proprietà che il conte sta comprando a Londra grazie a Jonathan: 
At Purfleet, on a by-road, I came across just such a place as seemed to be required, and where was displayed a dilapidated notice that the place was for sale. It is surrounded by a high wall, of ancient structure, built of heavy stones, and has not been repaired for a large number of years. The closed gates are of heavy oak and iron, all eaten with rust.The estate is called Carfax, no doubt a corruption of the old Quatre Face, as the house is four sided, agreeing with the cardinal points of the compass. It contains in all some twenty acres, quite surrounded by the solid stone wall above mentioned. There were many trees on it, which make it in places gloomy, and there is a deep, dark-looking pond or small lake, evidently fed by some springs, as the water is clear and flows away in a fair-sized stream. The house is very large and of all periods back, I should say, to mediaeval times, for one part is of stone immensely thick, with only a few windows high up and heavily barred with iron. It looks like part of a keep, and is closed to an old chapel or church. I could not enter it, as I had not the key of the door leading to it from the house, but I have taken with my kodak views of it from various points. The house has been added to, but in a very straggling way, and I can only guess at the amount of ground it covers, which must be very great. The are but few houses close at hand, one being a very large house only recently added to and formed into a private lunatic asylum. It is not, however, visible from the grounds. (pp. 27-28)

Se non è gotico questo... Un luogo isolato, un edificio grande, antico, disabitato, ammaccato dal tempo e architettonicamente eterogeneo, risalente con buona probabilità fino al medioevo e prossimo a un luogo sconsacrato non raggiungibile (perché sigillato). Il tutto circondato da elementi naturali quasi selvaggi (molti alberi ombrosi, un laghetto profondo e un ruscello) e chiuso entro i confini di un solido muro e di un cancello imponente. L'ospedale psichiatrico a due passi è giusto la ciliegina sulla torta :) Potrebbe essere tanto una dimora dal fascino secolare quanto una prigione o un forte, severo, maestoso e terribile. Carfax non ha niente da invidiare al castello del conte immerso nel rigoglio transilvano (appunto: trans-silvano) u.u

Subito dopo la chiacchierata su Carfax, Jonathan trova segnata in rosso su un atlante l'area della casa, assieme ad altri cerchi rossi presso Exeter e Whitby. Ancora una volta il nostro amico passa la nottata parlando del più e del meno con il suo ospite (il conte è interessato a ogni tipo di argomento) e i due si congedano all'alba.

NOTA: Ogni tanto Jonathan ha delle strane sensazioni: inquietudine, nausea, rumori indistinti e un brivido quando si avvicina l'alba.
I was not sleepy, as the long sleep yesterday had fortified me; but I could not help experiencing that chill which comes over one at the coming of the dawn, which is like, in its way, the turn of the tide. They say that people who are near death die generally at the change to the dawn or at the turn of the tide; any one who has when tired, and tied as it were to his post, experienced this change in the atmosphere can well believe it. (p. 29)
E ancora:
[...]there is something so strange about this place and all in it that I cannot but feel uneasy. (p. 29)
[...]that vague feeling of uneasiness which I always have when the Count is near. (p. 30)
Si riferisce alle chiacchierate notturne e alla sua nuova routine "giornaliera" con i termini this strage night-existence (p. 30)
Finalmente comincia a sospettare qualcosa (un po' lento il nostro Johnny): 
I have only the Count to speak with, and he!- I fear I am myself the only living soul within the place. (p. 30)

Fino a qui la descrizione del viaggio in treno e poi in carrozza, quella dei paesaggi naturali e anche la descrizione del castello sono fedeli nel film di Coppola, ma davvero fedelissima è la rappresentazione degli atteggiamenti del conte, addirittura certe battute sono prese pari pari dal romanzo, lo dimostra la scena di cui parlo ora.

Il mattino seguente, mentre si sta radendo, Jonathan, che non se ne accorge, è raggiunto dal conte ma, non vedendolo riflesso nello specchietto da toilette, si spaventa quando il suo ospite parla e si taglia con il rasoio. Per un attimo l'atteggiamento di Dracula alla vista del sangue si fa selvaggio, ma si blocca all'improvviso quando intravede il crocifisso al collo di Jonathan. Gli prende il rasoio dalle mani e lancia fuori dalla finestra lo specchietto con un pretesto (è un simbolo di vanità). 
N.B. Esplorando un po' l'edificio, Jonathan si era accorto che non ci sono specchi in tutto il palazzo.
Behold!:


Quando Jonathan si dedica ancora una volta all'esplorazione del castello, trova moltissime porte ma tutte chiuse (il conte gli aveva detto che poteva entrare in ogni stanza del castello purché la porta non fosse chiusa a chiave). Le uniche vie d'uscita sono le finestre, ma il castello sorge sopra a un precipizio e uscire dalla finestra è sinonimo di morte certa. Oltre il precipizio ci sono solo boschi. Nessuna porta del castello conduce a un'uscita. Jonathan si rende conto di essere prigioniero (no, non sei in Matrix, cicci, non è tutto nella tua testa...).


Ecco qua. Ci ho messo un po' a scrivere di questo secondo capitolo ma c'era davvero tanto da dire! Stay tuned per continuare a seguire le avventure del giovane Harker in Horrorland :D

venerdì 22 maggio 2015

Piccole storie


Piccole storie è una raccolta di one-shot di Mohiro Kitoh pubblicata in Italia da Star Comics nel marzo 2006. Il volume propone sette storie brevi che seguono la maturazione dell'autore a partire dagli esordi negli anni '80 fino a una decina di anni fa.


1. Gli ultimi caldi

E' l'opera di debutto di Mohiro Kitoh, pubblicata nel 1987. Le linee sono ancora incerte e il disegno  è grezzo, il suo stile non è ancora quello particolare e definito che conosciamo oggi. Parla di un ragazzo che riesce a vedere la sorella deceduta di recente in un incidente d'auto. I due trascorrono insieme una giornata che sembra quasi un primo appuntamento.


2. La ragazza sul palo della luce

Questa one-shot è del 1994 e, sebbene il tratto di Kitoh non sia ancora del tutto maturo, il suo stile è già riconoscibile. Racconta di Hideto, uno spirito bloccato in prossimità di un incrocio dove ha perso la vita nel tentativo di salvare una ragazza. Giorno dopo giorno, Hideto, appollaiato su un palo della luce, impara la routine di quelle strade, ma a salvarlo dalla noia arriva Sumiko, studentessa liceale, che, chissà per quale motivo, riesce a vederlo. I due fanno presto amicizia.


3. Coi fiori in mano (2000)

La telefonata di una vecchia amica che lo invita a un raduno di classe spinge Kyoji a ripensare alla sua infanzia, agli amici delle elementari, all'intraprendente Shinako, al primo amore, alla prima perdita. L'ultimo addio all'infanzia prima di entrare nell'età adulta.


4. Sporca ma pulita (2002)

Nonostante caratteri e condizioni familiari molto diversi, due ragazzi si avvicinano dopo essere stati vittime di bullismo.

5. A&R (2002)

Un giovane commesso viaggiatore ricorda di quando, da studente, portò sulla sua moto una strana compagna di scuola. Da allora tante cose sono andate diversamente da come sperava.


6. La canzone di papà (2003)

Due giovani che presto saranno genitori parlano delle rispettive famiglie e di come cambierà la loro vita con il lieto evento.


7. Un posto per Pochi (2004)

L'infanzia spensierata di alcuni bambini delle elementari, tra la scuola e i pomeriggi passati a mangiare dolcetti presso la pasticceria di quartiere di un vecchino.


Quelle di queste one-shot sembrano davvero piccole storie, storie insignificanti, ma tutte raccontano di alcuni momenti che hanno profondamente cambiato la vita dei protagonisti. Tutte parlano di giovani o bambini e di perdita. Perdita di persone amate, dell'innocenza, delle certezze, del senso di colpa. Eventi che visti da fuori o raccontati a qualcun altro non sembrano granché se si tratta di fatti nudi e crudi, ma che stravolgono il punto di vista dei personaggi sulla vita, il loro modo di interpretare il mondo. Sono piccole rivoluzioni personali, perlopiù amare, nonostante si pensi sempre che la giovinezza e l'infanzia siano il periodo dei ricordi felici.

Le one-shot che mi sono piaciute di più sono sicuramente l'ultima, Un posto per Pochi, e la terza, Coi fiori in mano. Le ho trovate anche un tantino disturbanti: i finali lasciano proprio l'amaro in bocca e trovo che questo tipo di conclusioni siano quelle che poi ti fanno riflettere per giorni su quello che hai letto. Tristi, ma belle proprio nella loro tristezza. Mi aveva fatto lo stesso effetto anche Le ali di Vendemiaire, una serie in due volumi sempre di Mohiro Kitoh (magari avrò occasione di parlarne più ampiamente quando lo rileggerò).
Quindi, non tutte le one-shot sono dello stesso livello, ma nel complesso è un gran bel volume, da tenere da conto nella propria collezione per rispolverarlo di tanto in tanto, ma solo se si è in vena di nostalgia e di un gusto dolceamaro.

martedì 5 maggio 2015

E Se fosse lui quello giusto? Chicago Stars volume 3

Nelle trame incentrate su una love story e che prevedono un lieto fine, talvolta i protagonisti passano attraverso una fase di rabbia e rifiuto, in pratica per un certo periodo si detestano. Può accadere all'inizio (i due non si sopportano e poi pian piano dall'odio imparano a conoscersi e nasce l'amore) oppure a metà strada tra l'innamoramento e il lieto fine (i due si innamorano e, proprio quando sembra che tutto vada a gonfie vele, succede qualcosa che li fa allontanare. Dovranno risolvere i loro conflitti per giungere al lieto fine).
Questa fase di scontri e litigi io la chiamo "i giorni dell'odio".
Prendiamo qualche esempio famoso per chiarire cosa intendo. 
Orgoglio e pregiudizio e derivati (come Il diario di Bridget Jones e Matrimoni e pregiudizi), Ricatto d'amore o Two weeks notice appartengono alla prima categoria: chi meglio di Elizabeth Bennet e Fitzwilliam Darcy passa dall'odio all'amore con un processo lento e graduale? 
Poi prendiamo Le pagine della nostra vita di Nicholas Sparks (c'è anche il film), Jane EyreMai stata baciata (mi fa rotolare dal ridere tutte le volte XD) come esempi della seconda categoria: i protagonisti si innamorano e, al momento di massima felicità, ha luogo un evento catastrofico che rovina il rapporto (don't worry, è temporaneo). Si tratti di famiglia o di amici che si intromettono, di segreti svelati, di problemi personali, prima o poi i protagonisti li risolvono per librarsi verso il classico "per sempre felici e contenti".

Fatto sta che i giorni dell'odio in genere occupano una parte contenuta (seppur rilevante) della trama, anche perché, se proprio uno cerca la storia d'amore, che amore è se i protagonisti non fanno altro che detestarsi? Ecco perché sono rimasta un attimo perplessa leggendo E se lui fosse quello giusto? di Susan Elizabeth Phillips.

Il libro in questione costituisce il terzo volume della saga pubblicata da Leggereditore dedicata ai Chicago Stars, fittizia squadra di football americano. In ogni volume un membro della squadra (o comunque un personaggio che ha a che fare con i Chicago Stars) trova la sua anima gemella in un modo o nell'altro. 


Maniaca delle cronologie quale sono, avevo giustamente iniziato il ciclo leggendo Il gioco della seduzione (qui, verso la fine del post, avevo spiegato perché l'ho comprato), per poi proseguire con Heaven, Texas. Un posto nel tuo cuore. Il primo non mi era dispiaciuto, nonostante i continui tira e molla dei protagonisti che avevo trovato un tantino irritanti, e il secondo l'avevo adorato, pur avendo iniziato a leggerlo con preoccupazione dopo aver letto diversi commenti che lo ritenevano il volume più debole della saga.

Non c'è due senza tre, e così, dopo averlo cercato a lungo per librerie senza trovarlo, appena comprato questo terzo capitolo mi sono tuffata nella lettura. Purtroppo per me l'ho trovato deludente. In parte perché qui di football non c'è neanche l'ombra. Sembra un'affermazione strana detta da una che legge romanzi rosa e che non è per niente sportiva. Invece le descrizioni delle partite e i dettagli sportivi erano una delle cose che mi era piaciuta di più de Il gioco della seduzione: le lettrici di narrativa rosa fanno spesso passare contesto e dettagli in secondo piano a favore di una maggiore concentrazione sulla storia d'amore, sul suo sviluppo, sulla psicologia dei personaggi che sono sempre il cuore di un romanzo rosa, ma io avevo apprezzato quest'incursione in un campo generalmente maschile, ancor più visto che il football è uno sport poco seguito in Italia e che fa parte di quella cultura cinematografica filoamericana di cui negli ultimi decenni sono piene le nostre televisioni. Essendo uno sport che conosco poco ma di cui sento spesso parlare, ero curiosa e ritrovarlo in un libro  mi è piaciuto.
Anche in Heaven, Texas di sport ce n'era veramente poco, ma lì il protagonista maschile, Bobby Tom, è irresistibile. Simpatico, divertente e generoso con tutti, agisce sempre in buona fede (anche se qualche casino lo crea...) e mi è stato impossibile non affezionarmi.

E se fosse lui quello giusto? non ha nessuno di questi due punti di forza, con l'aggravante che quasi l'intero libro è costituito da soli giorni dell'odio. 
La trama in breve. Jane è una brillante ricercatrice e professoressa di fisica. Bambina prodigio, laureata adolescente, invidiata dai colleghi, ha sempre fatto fatica nei rapporti con l'altro sesso, prima con un padre freddo e affatto amorevole e poi con un fidanzato rigido e  noioso che l'ha mollata per un'altra tempo addietro. Più di ogni cosa Jane vorrebbe un figlio, una famiglia, dei  legami, ma di sposarsi e trovare marito non se ne parla. E' più che pronta ad essere una madre single in carriera se sarà ripagata con una vita da proteggere e da allevare. 
Il problema è che Jane è cresciuta sola e allontanata dai suoi coetanei a causa della sua intelligenza (che ridicolmente fa cilecca in ogni campo che esula dalla fisica, ma adesso vedremo perché) e non ha nessuna intenzione di condannare il suo bambino a un destino simile, quindi il suo obiettivo è trovare un uomo stupido che riequilibri geneticamente il suo ingombrante cervello. Ma non va bene uno stupido qualsiasi, ne serve uno di cui possa conoscere anche l'anamnesi familiare per andare sul sicuro. Le banche del seme non vanno bene (tutti i donatori sono studenti di medicina, quindi intelligentoni, almeno secondo quello che afferma Jane più volte nel romanzo). 
Per caso sente l'intervista pre-partita alla tv di un giocatore dei Chicago Stars, Cal, e decide che non c'è candidato migliore di lui: un energumeno di bell'aspetto, molto fesso e di cui può recuperare le cartelle mediche. Come incontrarlo? Una giovane groupie della quadra, nonché vicina di Jane, organizza un incontro: Jane dovrà spacciarsi per prostituta come regalo di compleanno del povero Cal, generosamente donato dai compagni di squadra preoccupati dalla sua attuale castità (begli amici, che ti regalano una notte di sesso perché pensano che i tuoi problemi si limitino al fatto che non fai abbastanza ginnastica sotto le lenzuola! Vabbè...). 
Jane (ricordiamoci che è un fisico di fama mondiale, nonché donna rispettabile e decisamente timida e impacciata con gli uomini) accetta, si fa infiocchettare e spedire da Cal e, dopo una scena penosa in cui è palese che lei non potrebbe mai essere una prostituta e che è decisamente negata nell'arte della seduzione, i due consumano. Dopo un secondo incontro ridicolo quasi quanto il primo, Jane resta incinta, ma Cal lo viene a sapere e, essendo un uomo vecchio stampo, fortemente legato a quelli che sente come doveri morali, costringe Jane a sposarlo e se la trascina in montagna nel suo paese natale al fine di tenere segreta la gravidanza e assolvere ai suoi doveri di padre. Il piano è quello di divorziare dopo la nascita del bambino e fare in modo che Jane non entri a far parte della sua famiglia.

Una premessa lunghissima per far capire per quale motivo i due si detestano a morte fin dall'inizio. E questa situazione di tensione, di litigi, di urla, di rispostacce, di rappresaglie, di scontri continua per tre quarti del romanzo. Leggendo mi chiedevo che fine avesse fatto la storia d'amore. Si fa attendere ma alla fine arriva, assieme alla simpatica famiglia di Cal (nonna Annie, un mito!), a un altro giocatore di football venuto a rimpere le scatole a Cal e a un altro po' di litigi e prese di posizione radicali (stavolta risolutive, però).

Il resto del libro è ambientato nel paesino di montagna in cui vive la famiglia di Cal. Le location sono principalmente tre: l'orribile villone kitsch che Cal compra per salvare le apparenze e fingere di aver traslocato con  la nuova mogliettina, la semplice e accogliente casetta fatiscente di nonna Annie e il ristorante/tavola calda principale della cittadina. Tutto si svolge tra un tira e molla infarcito di litigi e più di questo davvero non c'è da dire. Anzi, posso aggiungere che ci sono alcune brevi parentesi che seguono la crisi matrimoniale dei genitori di Cal e che raccontano con dei flashback i loro primi anni insieme.

Insomma, ho letto di peggio, si tratta comunque di una lettura scorrevole che sono riuscita a terminare in un giorno, ma l'ho trovato deludente rispetto ai capitoli precedenti e abbastanza bruttino rispetto ad altri romance che ho letto. Dimenticabile ma non terribile.