sabato 5 settembre 2015

Presagio triste

Se escludiamo gli anime che guardavo da bambina (quando ancora non ero in grado di distinguere l'animazione giapponese dagli altri cartoni animati), il mio rapporto col Giappone è iniziato con i manga quando avevo undici o dodici anni. Durante le scuole superiori ho iniziato a interessarmi anche di letteratura del Sol Levante ed è stato proprio in quel periodo che ho scoperto Banana Yoshimoto.
Ricordo che la mia professoressa di italiano propose un esperimento: tutti dovevamo portare a scuola un libro letto e poi prestarlo a un compagno, in modo da scambiarci libri e impressioni ed esporre i nostri commenti alla classe. Una mia compagna portò Sly e, anche se alla fine non lo scambiò con me, mi rimase la curiosità. Ridicolo pensare che tutt'ora non l'ho letto e che con la Yoshimoto ho fatto tutto un altro percorso. Sono partita leggendo Kitchen, e forse quella volta nemmeno sapevo che era la sua prima opera. A parte la sorpresa nello scoprire che era molto più breve del previsto (Kitchen è solo il primo di due romanzi brevi contenuti nel libro), mi piacque moltissimo e decisi di approfondire la scrittura di Banana.
Entro la fine della scuola avevo letto anche N.P., Amrita e alcuni racconti di Lucertola e Sonno profondo. E poi basta. Non ho letto più niente di suo per anni, pur avendo qualche titolo a casa che aspettava solo di essere rispolverato. Non lo so, mi era passata la voglia. Quando pensavo di prendere in mano un suo libro mi dicevo: "Naaaaaaaaa! Sarà per la prossima volta".
Quest'estate, reduce da un periodo lunghissimo di blocco del lettore, spinta dalla disperazione avevo pensato di buttarmi per un po' su libri brevi e leggeri nella speranza di riprendere il ritmo. E così ho preso in mano Presagio triste. Lo scontrino conservato tra le pagine mi è testimone: l'avevo acquistato il 4 giugno del 2006 e il poverino ha dovuto aspettare nove lunghi anni che arrivasse il suo momento. Alla fine anche lui ce l'ha fatta ed ora eccomi qua a parlarne scriverne.


Yayoi vive in una villetta con i genitori e un fratello minore che sta per diplomarsi. Sulla sua quotidianità apparentemente perfetta ("La mia era una di quelle famiglie felici e sorridenti della classe media come in un film di Spielberg" p.22) grava però un'ombra sottile: Yayoi non ricorda la sua infanzia e, quando ci prova, un senso di struggente nostalgia la assale. Per tanti anni è riuscita a ignorare quella perdita, ma sembra che ora, piano piano, stia diventando insostenibile.
E non è l'unica sua stranezza: Yayoi sa le cose. O meglio, le sapeva. Sua madre le racconta che da bambina indovinava sempre chi stava telefonando non appena squillava il telefono e aveva questa particolare sensibilità che le permetteva di vedere o sapere cose che gli altri non percepivano, dote però che è andata normalizzandosi crescendo.
Yayoi è anche l'unica della sua famiglia a sentire un legame speciale con la giovane zia Yukino, eccentrica insegnante di musica in un liceo. In passato, quando doveva affrontare un problema, Yayoi mollava tutto e andava dalla zia, che vive da sola in una grande casa trascurata, con le erbacce che invadono il giardino e la polvere che avanza in tutte le stanze. Yukino mangia quando ha fame, guarda la tv se vuole svagarsi, salta la scuola se ne ha voglia e dorme per la maggior parte del tempo, ma quella vita riservata e solitaria ben si adatta ai momenti delicati in cui Yayoi sente il bisogno di allontanarsi dalla sua famiglia per schiarirsi le idee. Ed è durante uno dei suoi soggiorni presso la desolata casa della zia che Yukino svanisce nel nulla senza lasciar detto niente a nessuno. 
Yayoi parte, assieme al fratello Tetsuo, alla ricerca della zia per una gita che è più un viaggio alla riscoperta di sé e del passato e all'esplorazione dei segreti di Yukino e del legame che lei stessa ha con suo fratello.


Dopo tanti anni di lontananza dalle opere di Banana Yoshimoto e dopo averne spesso letto peste e corna da parte di molti lettori, mi ero quasi convinta che il mio bel ricordo dei suoi libri letti dipendesse dal fatto che da adolescente ero una lettrice meno smaliziata di adesso, che quella volta mi fossi fatta abbindolare dall'inesperienza e che a leggerla ora probabilmente non ci avrei trovato le stesse cose che mi erano già piaciute una volta. Quanto mi sbagliavo. Poche pagine dopo aver iniziato Presagio triste, di botto mi sono ricordata i motivi per cui avevo amato Amrita e Kitchen (N.P. lo ricordo di meno): la semplicità della scrittura, la familiarità delle atmosfere, la pacatezza dei personaggi. I suoi libri emanano pace e serenità, proprio quello che mi serviva dopo un periodo di letture burrascose. Mi è sembrato davvero di prendere una boccata di aria fresca e risanante. Un vero toccasana per menti travagliate.

I suoi classici temi sono tutti qui ancora una volta. 
Il soprannaturale: quasi sfiorato tanto è trattato in maniera vaga e indefinita; di solito c'è almeno un personaggio caratterizzato da una spiccata sensibilità che gli permette una visione del mondo un tantino differente da quella di tutti gli altri, questo pg sente un legame con le altre persone o con l'aldilà ma non ha pretese di inquadramento o etichettatura, è qualcosa di naturale come respirare, non è strano né viene percepito come anormale, è parte integrante del ciclo vitale e del mistero della natura; inoltre il soprannaturale è sempre abbozzato e non è mai invasivo, non monopolizza la scena o la trama fino a spingere il libro nei generi dell'horror o del fantasy, aleggia sulle vicende facendosi sentire di quando in quando.
La casa: la quotidianità e la ripetitività dei gesti, il conforto di ciò che è noto e l'universale riconoscerci come esseri umani che vivono al di fuori di eventi eccezionali per la maggior parte della vita. La casa è intesa come il focolare domestico, plasmata sui suoi abitanti ma uguale per tutti nelle nostre necessità elementari, è il luogo di conciliazione con se stessi, di ritiro mentale, di tranquillità, il luogo dove si può essere quello che si è senza finzioni. 
Ma soprattutto la famiglia: famiglia intesa come legame coltivato tra le persone più che come fattore biologico. Banana Yoshimoto sceglie sempre di esplorare situazioni fuori dall'idea di famiglia che fa parte dell'immaginario comune, cioè quella di padre, madre, figli, nonni, zii, nipoti tutti legati dal sangue, dal dovere e dall'obbedienza. Banana fa sì che i suoi personaggi stiano insieme per motivi diversi dallo spoglio vincolo biologico, costruiscono ogni volta rapporti che si nutrono di affinità, di condivisione, di accettazione e sceglie relazioni che difficilmente si inquadrano nella società o nell'etica, spesso i suoi personaggi fanno parte di famiglie allargate. Non è intesa come una sfida o una critica all'ordine esistente, ma più come il prendere in considerazione ambiti affettivi che ancora non hanno definizione, è l'esplorazione delle sfaccettature dei legami tra le persone, nessuna relazione è uguale a un'altra perché non ci saranno mai due persone identiche.

Mi sono molto piaciuti i personaggi principali, la misteriosa e pigra Yukino in primis, ma anche il solare Tetsuo e l'energico e rassicurante Masahiko (non vi spiego chi è altrimenti spoilero). E ho amato la delicatezza con cui l'autrice tratta temi drammatici e problematici (la stessa con cui dipinge con vaghezza il soprannaturale e con tatto i legami tra personaggi). 
Quindi niente di nuovo rispetto ai romanzi che avevo letto in precedenza (in particolare ci ho trovato molto di Amrita, o forse dovrei dire che ho trovato molto di Presagio triste in Amrita), forse anche perché sono tutti stati scritti in un arco di tempo non troppo ampio (Kitchen e Presagio triste nel 1988, Sonno profondo nel 1989, N.P. nel 1990, Lucertola nel 1993 e Amrita nel 1994), ma era proprio quello che volevo e comunque non sono una fanatica dell'originalità a tutti i costi. 
Insomma, l'ho davvero apprezzato e ha decisamente migliorato la mia estate, temevo di andare incontro a una delusione e invece ho ritrovato una vecchia amica :)

Nessun commento:

Posta un commento